Recensione di ‘Gilgamesh’: Un antico poema moderno
La tavoletta su cui è stato registrato questo episodio, insieme a migliaia di altre pietre iscritte in scrittura cuneiforme, è emersa a metà del XIX secolo con la scoperta, nell’attuale Iraq, della biblioteca di un antico re assiro. Gli scavatori britannici spedirono il mucchio di tavolette a Londra, e i linguisti si misero al lavoro per decodificare la difficile scrittura. Nel 1872 un giovane studioso di nome George Smith si imbatté nella storia di Utnapishtim e della sua sopravvivenza all’inondazione, mentre stava esaminando le tavolette rotte. Mentre ne leggeva il contenuto, cominciò a correre per la stanza dello studio, togliendosi i vestiti per l’eccitazione. Il mondo moderno ebbe così il suo primo, inebriante assaggio di un poema che aveva dormito per migliaia di anni.
Gilgamesh: The Life of a Poem
Di Michael Schmidt
Princeton, 165 pagine, $24.95
Come sono emerse altre tavolette con altri pezzi di “Gilgamesh”, è diventato chiaro che il resoconto del diluvio nel poema era una delle tante storie che un antico barbone – il cui nome è Sin-leqi-unninni – aveva intrecciato. L'”epopea” risultante, come viene talvolta definita, segue la lotta esistenziale di un sovrano imperfetto la cui parentela mista lo rende in parte umano e in parte dio. Come Achille, una figura simile presa tra lo status umano e quello divino, Gilgamesh deve alla fine accettare la sua condizione mortale, in parte trovando il suo posto all’interno dell’ordine sociale.
In “Gilgamesh: La vita di un poema”, Michael Schmidt, poeta e romanziere britannico, spiega come il carattere speciale di “Gilgamesh” abbia avuto un’influenza fuori misura sugli scrittori moderni. “Tutti i poemi sono unici, ma Gilgamesh è più unico della maggior parte”, sostiene, in quanto manca un “evento creativo”, un racconto (reale o fittizio) della propria genesi. Sin-leqi-unninni può aver messo per iscritto la nostra versione, ma “Gilgamesh” è effettivamente “un poema senza poeta”. Il suo “anonimato” invita le risposte dei lettori in modo più potente di altre opere antiche, e questo libro è, principalmente, un’esplorazione di quelle risposte, ottenute dal signor Schmidt attraverso un sondaggio inviato a 50 poeti moderni.
Quando “Gilgamesh” si apre, il personaggio del titolo sta turbando gravemente il popolo di Uruk, il regno sumero su cui governa. Piuttosto che vedere Uruk tiranneggiata, gli dei intervengono, producendo la creazione più memorabile del poema, una figura chiamata Enkidu. Quando lo incontriamo per la prima volta, Enkidu è un arruffato figlio della natura, un uomo selvaggio che si diverte con antilopi e gazzelle, finché non incontra la “prostituta sacra” Shamhat. Questa donna, una sacerdotessa che serve la dea Ishtar, civilizza l’uomo selvaggio con sette giorni di amore. La trasformazione di Enkidu prepara la strada per il suo ingresso a Uruk, dove incontra Gilgamesh e si forma un potente legame.
La partnership dei due eroi serve come perno per gran parte di ciò che traspare in seguito. Insieme affrontano la loro grande prova, una battaglia con il mostro Humbaba, e insieme trionfano. Ma quando Gilgamesh offende gli dei, rifiutando le seduzioni di Ishtar, Enkidu diventa una sorta di procuratore e paga con la vita la trasgressione del suo amico. Agonizzato dal dolore, Gilgamesh si mette in viaggio verso Utnapishtim, cercando di capire come un suo simile abbia piegato le leggi ferree della mortalità. Nella terra della morte, fallisce le prove che lo avrebbero esentato da quelle leggi; torna a Uruk un uomo più saggio, forse, e meno tiranno.
La stranezza del poema di Gilgamesh, con i suoi paesaggi fantasmagorici e il suo interesse per gli esseri ibridi, mezzi umani, è accompagnata dalla stranezza della sua forma fisica. Le tavolette di pietra rotte, incise con segni cuneiformi simili al braille, fanno del “Gilgamesh” un artefatto molto più remoto dell’epica omerica con cui viene spesso paragonato (e che potrebbe aver influenzato). Anche il suo linguaggio è più oscuro, compreso solo da un piccolo numero di specialisti. Rimane tuttora incompleto, mancando circa un decimo dei versi una volta registrati da Sin-leqi-unninni, anche se altri vengono recuperati di anno in anno man mano che nuovi frammenti vengono alla luce.
Queste opacità e lacune sono ostacoli per alcuni lettori, ma fascino per altri. Il signor Schmidt è decisamente in quest’ultimo campo. Il suo primo incontro con la vecchia traduzione di N.K. Sandars del “Gilgamesh”, nella serie Penguin Classics, ha evocato la tecnica dei poeti moderni che ammirava, compresi Charles Olson e Louis Zukofsky. “Qui c’era una risorsa modernista”, scrive. Proprio come H.D. e Ezra Pound, in quanto primi imagisti, traevano ispirazione dagli epigrammi dei greci, il signor Schmidt e i suoi colleghi poeti trovarono le lastre di “Gilgamesh”, con i loro bordi frastagliati e le linee interrotte, uno stimolo all’innovazione formale.
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Molti scrittori contemporanei hanno avuto incontri altrettanto fruttuosi con “Gilgamesh”, e molti hanno tradotto o adattato il poema. Nelle sezioni più avvincenti del suo libro, il signor Schmidt esamina queste risposte moderne e campiona i recenti stili di traduzione. La sua vecchia versione Penguin, egli trova, aveva grossolanamente distorto il poema dandogli un narratore in prima persona e aggiungendo una risoluzione spuria. Persino il titolo di quell’edizione – “L’epopea di Gilgamesh” – è una menzogna, perché il signor Schmidt è convinto che il termine “epica” addomestichi falsamente il poema, assimilandolo alle opere più familiari di Omero e Vergil. Agli occhi del signor Schmidt, questi testi stabili e legati all’autore parlano in un registro molto diverso da quello del “Gilgamesh” volatile e senza autore.
Questo libro non dovrebbe essere scambiato per una semplice introduzione al “Gilgamesh”, anche se include un riassunto del contenuto del poema. È forgiato invece dalle meditazioni del signor Schmidt sul poema e da quelle che ha raccolto da altri poeti. Quando si impegna nella spiegazione del testo, la sua prosa può essere esigente. Per fare un esempio, descrive il rapporto tra Enkidu e Gilgamesh come “emblematico dei modi in cui il fatto narrativo richiede la complementarietà dell’invenzione e la sua illuminante ironia”
Tali incursioni criptiche nel linguaggio critico sono bilanciate, tuttavia, da intuizioni concise che illuminano sia la pagina che il poema. “Le distanze tra coloro che non muoiono (gli dei) e coloro che muoiono (i loro sudditi)”, scrive il signor Schmidt nel descrivere il paesaggio religioso di “Gilgamesh”, “potrebbero essere misurate con un buon pedometro”. Le sue osservazioni appena inquadrate aiutano a rinnovare uno dei racconti più antichi del mondo.
-Mr. Romm è l’editore e il traduttore di “How to Die: An Ancient Guide to the End of Life”, una selezione di scritti di Seneca.